Siamo agli inizi del 1800: la popolazione mondiale contava all’incirca 920 milioni di abitanti, Beethoven aveva appena composto la seconda sinfonia in re maggiore, Alessandro Volta aveva appena comunicato alla Royal Society l’invenzione della pila, e mentre a Napoli moriva in miseria il poeta marchigiano Giacomo Leopardi, nell’esilio di Marsiglia Giuseppe Mazzini fondava la Giovine Italia.
Siamo ai primi vagiti dell’era moderna, l’era della tecnologia, ma ci troviamo ancora in un mondo profondamente diverso da quello che conosciamo oggi. Le comunicazioni tra i vari Paesi viaggiano lente, la vita era per certi versi più semplice e lineare, e la principale fonte di conoscenza per chi non aveva il privilegio di studiare era l’osservazione.
Con questo spirito e in questo contesto storico muove i suoi primi passi in Valle d’Aosta il medico canavesano Lorenzo Francesco Gatta. Appassionato ricercatore in campo agrario, il Gatta venne affascinato a tal punto dalla viticoltura valdostana, che decise di scrivere nel 1836 quello che a noi oggi è noto come Saggio sulle viti e sui vini della Valle d’Aosta, un volume dall’importanza immensa nel quadro ampelografico mondiale e vera e propria pietra miliare della viticoltura valdostana, che avremo modo di approfondire meglio in seguito.
FOTO: Nonno Romano e suo papà Giosuè di ritorno dopo una giornata nelle vigne
É grazie a questo saggio che noi ora possiamo guardare alla Valle d’Aosta con occhi diversi, entrando in un mondo rurale fatto di profonde diversità culturali tra le varie vallate e in cui la coltivazione di un arbusto svettava su tutti con classe e superiorità: la vite.
La Valle d’Aosta di quegli anni contava una superficie vitata di circa 4 mila ettari, esattamente 3600 in più di quelli attuali. La sua coltivazione si estendeva a più di 40 comuni del fondo Valle e, per 20 di essi, costituiva la principale fonte di reddito.
Ma ciò che più colpiva era la biodiversità presente in questa regione, che dava origine ad una grande quantità di vitigni, e conseguenti vini.
L’origine di questa ricchezza viene da lontano. Le prime fonti certe riguardo la presenza della vite nella nostra regione risalgono all’epoca dei Romani. Questi ultimi intorno al II secolo a.C., intrapresero le prime incursioni in Valle, importando in questi luoghi i loro usi e costumi, tra i quali la coltura della vite e il consumo del vino.
A partire dal V secolo d.C., la viticultura valdostana attraversò alterni periodi di attività e di abbandoni: le incursioni dei Barbari e dei Saraceni, le prime avvenute dall’inizio del V secolo in poi e le successive sul finire del X secolo d. C., provocarono ripetuti spopolamenti delle campagne. Senza la cura e la mano amica ed esperta del viticultore, le viti si svigorirono, ma, fortunatamente, mantennero sufficiente vitalità da serbare nel proprio corredo cromosomico il potenziale agronomico e viticolo sfruttabile dall’uomo.
Abbandonate a loro stesse, solo le viti più idonee -e nei siti più vocati- resistettero, a fianco di altre specie vegetali parimenti competitive nei selettivi ambienti pedemontani della vallata centrale. Probabilmente le poche viti superstiti giunsero a perpetuare la propria specie, producendo frutti non più raccolti dall’uomo e originando nuovi biotipi e varietà, tramite ripetute riproduzioni da seme. In questo modo potrebbero aver avuto origine gli Orious, una famiglia di vitigni autoctoni comprendente il Petit Rouge e il Vin de Nus.
Tra le principali varietà coltivate negli anni di stesura del Saggio troviamo il Picoutendro (Nebbiolo), il Fumin, il Cornalin, la Corniola, il Majolet, il Neret, la Bonda, il Picciourodzo (Petit Rouge), la Malvoisie, il Prié e tante altre varietà, molte delle quali non resistettero fino ai giorni nostri. Il valore più grande del manoscritto del Gatta fu quello di fornire un metodo preciso ed affidabile per il riconoscimento e la classificazione di tutte queste varietà. Eravamo infatti in anni in cui il singolo vigneron (viticoltore) aveva ben pochi metodi di classificazione delle proprie piante e la scelta di un impianto piuttosto che dell’altro venivano spesso determinate dalle caratteristiche di resistenza e di adattamento al nuovo territorio. La conoscenza in campo ampelografico era scarsa e, grazie anche al lavoro di altri studiosi prima di lui, il medico canavesano riuscì a fornire gli strumenti ai viticoltori valdostani per riconoscere le loro piante basandosi su accurate analisi del carattere fenotipico (l’espressione dei geni).
FOTO: Giosuè e Irma Lacroix con la piccola Melania davanti alla cantina di famiglia
Tra i tanti vini prodotti da altrettante varietà di uva, svettano poi dei vini cosiddetti di ‘lusso’. I vini di lusso erano principalmente quattro: il Muscat, il Clairet, la Malvasie e il Torrette.Il termine ‘lusso’ andava a designare non solo la clientela a cui erano indirizzati, ma anche la diversa lavorazione alla quale erano soggette le uve. Verso la fine dell’Ottocento il canonico Edouard Bérard descrive con ampia precisione il metodo di vinificazione di questi vini:
“ l’uva come abbiamo detto si lascia appassire per due o tre mesi, e si preme al torchio, si lascia quindi depositare alcuni dì in tini aperti e quindi si rinserra in botti ben cerchiate e chiuse e non si spilla che dopo 3 o 4 mesi. Tale vino dicesi forzato. Il travasamento si fa tutti gli anni e dopo 3 o 4 anni si imbottiglia”.
Molto ci sarebbe da dire sulle tecniche di produzione di questi vini detti ‘forzati’, e sulle loro caratteristiche enologiche, ma daremo spazio a tutto questo nei prossimi articoli.
Il lavoro del Gatta non si limitò alla sola classificazione delle varietà, ma si estense anche nello studio e nell’osservazione degli areali e delle zone in cui questi vitigni esprimevano al meglio le loro qualità. Pochi anni dopo il classement francese dei crus borgognoni e bordolesi, il canavesano classificò i vigneti valdostani in due ordini: i “circondari”, ossia delle grandi superfici di territorio omogenee per tipologia di vitigni e, secondariamente, le “regioni vinifere”, ossia i migliori crus presenti in ogni circondario. Così il Torrette, prima ancora di essere una frazione del comune di St Pierre, era la migliore “regione vinifera” del settimo circondario, quindi un autentico grand cru classé. Tra le altre cose, all’inizio della descrizione di ogni regione vinifera venivano elencati i vitigni più diffusi in modo scalare. Ci rendiamo ben presto conto che nell’areale di Saint-Cristophe ed Aosta il Nebbiolo era estremamente diffuso, addirittura di più di varietà attualmente presenti come, il Fumin e il Mayolet.
Per comprendere meglio quanto la vite avesse radicato all’interno dei valdostani basti pensare che, durante il periodo a ridosso della vendemmia, ogni villaggio soleva pagare una guardia di contadini con il compito di sorvegliare le vigne da eventuali furti. L’epoca stessa di vendemmia veniva scelta da esperti vignerons, che riferivano con giuramento al giudice distrettuale lo stato di salute della vigna e il giorno più convenevole per dare inizio al più ‘festevole’ tra i lavori agricoli.
Nonostante questo però il periodo di stesura del Saggio corrisponde ad un iniziale declino della viticoltura valdostana. Per riscoprirne gli antichi fasti dobbiamo andare ancora più indietro nel tempo.
Le prime testimonianze consolidate di commercio di vino valdostano evocano importanti scenari commerciali perdurati almeno cinque secoli (dal XIV al XIX secolo) che hanno interessato prevalentemente le aree transalpine della Savoia francese e del Vallese svizzero.
In questo periodo la viticoltura locale, grazie ai floridi commerci, beneficiò di un'autentica esplosione produttiva portando il vigneto valdostano ad espandersi fino ad almeno 4000 ettari a inizio ottocento. La produzione doveva essere imponente se pensiamo che, nel solo 1718, i regnanti del Vallese svizzero comunicano che una sola valle locale aveva “extrait de la Valdoste la dite année plus de mille charges”...Tenuto conto di tutte le valli vallesi, dell'importante commercio verso la Francia e dei meno importanti ma presenti mercati piemontesi e lombardi sembra ragionevole pensare che la produzione fosse almeno 3/4 volte il montante accordato ad una sola valle svizzera. La cifra totale doveva raggiungere almeno 3/4000 charges ossia circa 5/600.000 bottiglie per la sola esportazione. Se a questa già rilevante quota si aggiunge una pari quota per il commercio interno (che doveva essere pari se non superiore all'export) si supera facilmente il milione di bottiglie e si ha un'idea del commercio di vino valdostano “d’antan” (di un tempo).
FOTO: La fienagione, uno dei momenti dell'anno insieme alla vendemmia in cui veninva e viene coinvolta tutta la famiglia.
Da uno sfarzo simile alla situazione odierna, lo scarto è davvero forte. I fattori che contribuirono al definitivo tracollo della viticoltura valdostana furono molteplici, tra cui annoveriamo, su tutti, la comparsa delle tre malattie che misero in ginocchio i viticoltori di tutto il mondo: la fillossera, l’oidio e la peronospora che flagellarono l’Europa verso la fine dell’Ottocento e che portarono i vignerons valdostani a preferire varietà alloctone e più produttive, contribuendo all’abbandono delle varietà autoctone.
La Rivoluzione Industriale, che in Italia prese avvio con largo ritardo a causa della sua unificazione, nel 1861, contribuì allo spopolamento e all’abbandono delle campagne nei primi anni del Novecento. L’avvento della ferrovia nella Vallé nel 1886 favoriva l’acquisto di grandi volume di vino provenienti dal vicino Piemonte, in un periodo i cui produrre vino locale era costoso e poco redditizio. L’insediamento della, ancora oggi nota, fabbrica metallurgica Cogne fu un altro dei fattori, unito alla grande chiamata alle armi delle due Guerre Mondiali, che impoverì le campagne valdostane di manodopera e vigore.Disagi, questi, che facilmente si possono riscontrare nella storia di ogni regione viticola europea di quegli anni, ma che qui in Valle d’Aosta vennero ben presto dimenticati, avviando così la nostra regione verso il suo periodo più buio a livello enologico. Un vero e proprio Medio Evo della viticoltura.
Fermo per un attimo questa macchina che ci porta a viaggiare nel tempo per condividere questa riflessione con i miei lettori.
Alla luce di quanto precedentemente detto, è chiaro che la Valle d’Aosta di quegli anni era profondamente diversa da quella attuale: in agricoltura, in economia e certo anche nello spirito che dominava gli animi degli abitanti. Guardando ciò che abbiamo ora e analizzando a fondo ciò che abbiamo perso, mi rendo conto dell’elevato livello di conoscenza che erano stati in grado di raggiungere con l’utilizzo della sola osservazione i nostri predecessori: un risultato eccezionale. Io, personalmente, credo che nel momento in cui si riesca a fare una classificazione del territorio in base alle qualità dei vini che ne scaturiscono, si sia raggiunto il massimo livello di espressione per quei vini e in quella regione. In poche parole, il più alto livello di conoscenza e interpretazione.
Casi come quello valdostano esistono probabilmente in tante altre regioni d’Italia, in cui lo sfarzo enologico di un tempo non corrisponde più a quello odierno. Ora, quando andiamo a parlare dei vini francesi -e alle volte si fanno persino dei paragoni- e mi riferisco, in particolare, alla Borgogna, non possiamo stupirci di fronte ai loro prezzi e né tantomeno davanti alla misticità che quei vini portano con sé. è sbagliato analizzare le loro strategie di mercato, adducendo la solita, scontata argomentazione “i Francesi sono più bravi di noi a vendersi”; può, per certi versi, essere vero, ma è altrettanto vero che il segreto del loro successo sta nell’averci creduto fino i fondo e nel non aver mai ceduto. Anche loro come noi hanno, nel lungo corso della storia, affrontato periodi di crisi e periodi di fasto ma non hanno mai mollato. Così la Borgogna, si presenta oggi esattamente come si presentava duecento anni fa. Con le stesse vigne, con gli stessi vitigni e con le stesse tradizioni, ma con un savoir faire millenario, che loro sì, sono stati capaci di tramandare di generazione in generazione. Il loro successo è sotto i nostri occhi.
Concludo questo ampio articolo ricordando il punto dalla quale è partito il nostro viaggio: cercare nel passato le risposte per interpretare il futuro. Vale nel vino come vale nella vita e confido in questa generazione: che possa avere la forza di riesumare tra gli antichi vitigni quell’orgoglio che dominava il vigneron valdostano davanti alle proprie vigne.
La prima tappa del nostro percorso finisce qui.
Vi do appuntamento al prossimo mese per scoprirne qualcosa di nuovo sui vini di ‘lusso’ e sulle tecniche enologiche dell’epoca.
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