Abbiamo sempre sposato l’idea che, per poter interpretare al meglio il futuro, si debba conoscere bene ilproprio passato. Vale nella vita e vale anche nel vino. Così, più di dieci anni fa, studiando la storia dellaviticoltura valdostana, venimmo per la prima volta a conoscenza del Clairet: un vino definito “di lusso”,composto da tre parti di Nebbiolo e una di Neiret.
Raccontare il Clairet significa anche riportare alla luce la storia di una Valle d’Aosta del vino di cuinon si parla mai a sufficienza.Una regione che, all’inizio dell’Ottocento, contava più di 4 mila ettari vitati- oggi sono circa 400 - e in cui più di venti comuni della Valle centrale basavano il proprio sostentamentosul commercio di vino. Una regione, insomma, in cui il vino era una cosa seria.
“Post fata resurgam”, ovvero “Dopo la morte rinascerò”, è il motto della Fenice, uccello mitologicocapace di risorgere dalle proprie ceneri. Tornato alla vita dopo secoli di oblio, questo vino si pone comeunicum all’interno del suo panorama varietale: non guarda al Piemonte, non ricorda Donnas né laValtellina. È e vuole essere semplicemente se stesso: il Clairet.
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